«Amatrice non c’è più». Così il sindaco della cittadina laziale diede la misura del terremoto che, a partire dalla notte del 24 agosto 2016, avrebbe investito l’Italia centrale per mesi. Ridotta progressivamente in briciole dalla catena sismica, oggi Amatrice è una tabula rasa da cui emergono i brandelli, entro armature di tubi, di quanto è sopravvissuto del patrimonio monumentale. Amatrice come l’hanno conosciuta gli abitanti, i turisti, gli studiosi ormai è solo un nome. «Come raccontare la varietà e la ricchezza delle testimonianze culturali di una città scomparsa? Come trasmettere la gravità e l’estensione dei danni attraverso le immagini senza cedere all’estetica della catastrofe?». Sono le domande che si sono posti Francesco Gangemi, Rossana Torlontano e Valentina Valerio, storici dell’arte specialisti di Amatrice e del suo territorio. Domande che muovono dalla necessità di mettere a disposizione competenze e strumenti, in un processo di riflessione attorno a memoria e ricostruzione, tra questioni di metodo e dimensione “politica” della ricerca. Il risultato è una mostra digitale promossa dalla Bibliotheca Hertziana di Roma (visitabile alla pagina galerie. biblhertz.it/it/amatrice), che raccoglie e sistematizza fotografie storiche su Amatrice e le affianca a immagini scattate immediatamente dopo il sisma e in periodiche campagne di monitoraggio realizzate dalla fototeca dell’istituto. La mostra restituisce virtualmente la perduta unità culturale del territorio e apre la riflessione su forme, modi e finalità della ricostruzione.
«In occasione di un volume dedicato ad Amatrice, pubblicato nel 2015 – spiega Rossana Torlontano, docente di Storia dell’arte moderna presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti–Pescara – avevamo commissionato una campagna fotografica ad hoc. Era stato un passo importante per dare maggiore conoscenza a un patrimonio ricco e caratterizzato da una forte identità ma poco noto al di fuori di una ristretta cerchia di studiosi. Quelle foto, che documentavano in modo approfondito i monumenti in uno stato ideale, perché reduci dai restauri promossi in seguito al terremoto aquilano del 2009, sono stati utilissime nell’immediato postsisma per consentire una prima ricognizione di perdite e danni. Ci siamo allora domandati come questo ampio patrimonio di immagini potesse essere messo a frutto, insieme alle fotografie storiche della fototeca dell’Hertziana di Roma e di altri archivi, a partire da quelli delle soprintendenze».
Materiali e riflessione, dopo mesi di studi, sono confluiti nella mostra “Focus su Amatrice”: una ricognizione sistematica attraverso immagini di diverse epoche che documentano e analizzano la città e il suo patrimonio culturale nella sua consistenza e nella sua storia – a partire dagli eventi sismici di cui sono stati vittime nel tempo fino alla sequenza di distruzione, rimozione, messa in sicurezza – quanto infine nella storia dello sguardo di cui sono stati oggetto. Un’operazione che riallaccia i resti alla loro memoria e insieme si interroga sul destino delle macerie. «La mostra vuole mostrare le potenzialità della fotografia e dare un’indicazione operativa: dalle immagini bisogna partire – spiega Francesco Gangemi, storico dell’arte e già ricercatore presso la Bibliotheca Hertziana – Subito dopo il sisma c’è stata una sovraesposizione mediatica, per giorni gli schermi erano pieni di macerie. Poi è sceso il silenzio della cronaca. Questa mostra restituisce all’evento la sua durata. L’equivoco del post–catastrofe è scandire un prima e un dopo, mentre il sisma è un tempo lungo, anni o decenni di vita che vanno ricordati. La mostra online consente di costruire un osservatorio in costante aggiornamento ». Le foto storiche raccontano i volti di chiese, affreschi, strade. Quelle del 2015 ne mostrano l’ultimo. Quindi macerie, ruspe, magazzini. «Le foto dei vari stadi di accumulo e cancellazione delle macerie – osserva Torlontano – costituiscono una documentazione a disposizione di studiosi e una testimonianza storica.
Molti di questi brandelli sono smembrati in vari depositi. Mantengono una persistenza fisica ma lo stato generale rende impossibile una ricostruzione “dov’era com’era”. Questi resti dovranno assumere una forma e una percezione tutta da inventare. Il nostro ruolo non è proporre soluzioni ma dare strumenti per riflettere». Storicizzare le macerie, allora, togliendo loro una morbosa aura estetica: «Inutile negare che c’è un fascino nella catastrofe. L’abbiamo sperimentato di recente con Notre–Dame: lo spettacolo della fine di un monumento. L’estetica della catastrofe non è solo perseguita dai media ma anche da un certo modo di organizzare mostre. Un approccio molto più cauto e rispettoso è una riflessione sul tempo». Il futuro parte da qui: «Ciò che è venuto meno è l’abitato, il costruito del centro storico. Ma anche solo fermarsi ai monumenti non è poco: come è stato detto, sono un “dispositivo di sicurezza”, un momento simbolico di identità. Qualsiasi progetto dovrà pensare al proprio interno questi brandelli di chiese, memoria di una città destinata a essere di nuova fondazione. Una sfida difficile, in un territorio già investito da spopolamento, secolarizzazione e urbanizzazione ». Fatti salvi gli anniversari, su tutto il cratere sismico (ma vale anche per l’Aquila) l’attenzione è ridotta: «Eppure il presente e il futuro – dice Torlontano – sono tema delicatissimo, che riguarda la vita della persone e la cosa pubblica. Più il dibattito è ampio e condiviso, più acquista un valore democratico. Questa mostra vuole riportare attenzione. Non siamo studiosi militanti, ma crediamo nel valore civile della nostra disciplina». «Nella mostra – conclude Gangemi – abbiamo dedicato uno spazio a sismi del passato, da Messina ad Assisi, e le risposte date. Ogni disastro ha avuto risposte tecniche e politiche diverse perché ogni ricostruzione è lo specchio della società civile di quel tempo. Ogni situazione è inedita perché la società è sempre diversa. Alla domanda su quello che sarà, nessuno ha la risposta. Ma se studiamo il passato, non si riparte sempre da zero».
(Di Alessandro Beltrami, da «Avvenire»)